Sulle tracce di Marco Polo

“La storia della Via della Seta non è un romanzo poetico, nè pittoresco, ma è fatto di alcune oasi di pace in un mare di guerra. Tuttavia, in queste oasi di pace e anche nelle fasi di guerra è tutta una storia di scambi e di trasferimenti di beni materiali, di competenze tecniche, di conoscenze scientifiche e di influssi artistici, di credenze religiose, anche di leggende, da un secolo all’altro. Di questi scambi, del lavoro e dell’intelligenza di tutti questi popoli siamo tutti eredi.”

La scelta dell’Uzbekistan come meta in aprile è stato il frutto di una serie di circostanze e di incastri, conclusasi alla fine con un “perchè no?”.

Uno di quei posti di cui abbiamo sempre subito la magia, come una brezza leggera che spira verso occidente dall’Asia Centrale, un fascino che si nutre di leggende di grandi eroi, di terre lontane ed esotiche, di imperi scomparsi; un immaginario fatto di viaggi in carovana su dune roventi, ricchi scambi commerciali di seta, spezie e pietre preziose. La culla della civiltà, oggi luoghi ingiustamente trascurati e spesso confusi nelle nostre coscienze, incapaci di distinguere i singoli paesi, le città, i popoli.

<<Uzbekistan? E dove sta? Ma non c’è la guerra?>>

<<Il paese di Samarcanda>>

<<AAAAAAAAAAAAAAAH>>

(Grazie Vecchioni, con una canzone hai salvato le nostre conversazioni)

Partenza a metà Aprile con Uzbekistan Airways, l’aereo è semivuoto solo un gruppo di pensionati molto rumorosi che incontreremo diverse volte nel corso del nostro giro. Già in volo capiamo che il paese in cui stiamo andando ha le sue particolarità con cui dovremo fare i conti: tanta burocrazia sottoforma di fogliettini da collezionare ovunque, niente carte di credito, niente bancomat. Per fortuna, appena arrivati, c’è Nadie ad attenderci al di là dei controlli doganali; è la nostra guida che ci accompagnerà sempre, premurosa e attenta, ci aiuterà a comprendere la cultura locale, usi e costumi, insomma gli Uzbeki di oggi e di ieri.

Gli Uzbeki sono il prodotto di una varietà di gruppi etnici, hanno tratti somatici che ricordano le popolazioni mediterranee, ma in realtà sono un incrocio di stirpi di origine turca, gruppi di origine indoeuropea e mongoli. Gli uomini indossano il loro caratteristico copricapo, il dopy e sorridono con i loro denti d’oro.

La mattina successiva si parte in aereo alla volta di Khiva, la città che giustamente Elias Canetti descrive come l’altrove in cui sembra di essere già stati anche se lo hai dimenticato, con la sua piazza, ostentazione di densità e calore che sono la vita stessa.

Secondo la leggenda fu fondata da Sem il figlio maggiore di Noè 2.500 anni fa, quando, vagando nel deserto, trovò un pozzo ed esclamò “Khi-va!” (“acqua dolce”).

In realtà, come molte altre città da queste parti, nacque intorno al V o VI secolo d.C. e prosperò come luogo di ristoro lungo la Via della Seta e come tutti gli insediamenti posti lungo questa via carovaniera, passò attraverso alterne vicende storiche e un susseguirsi di dominazioni varie per finire sottomessa alla Russia e quindi assorbita nella neonata Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan. Oggi è divisa in due grosse aree: Inchon-Qala “dentro le mura” e Dinchon-Qala “fuori le mura”.

Facciamo il nostro ingresso nella città antica dalla porta Ota-Darvoza “la porta del padre”, attraversata la quale, la città, perfettamente conservata, si apre davanti a noi con i suoi innumerevoli esempi di architettura islamica.

Il Pakhlavan Makmud uno dei più belli della città intitolato a al santo guerriero dell’Islam e la Madrasa di Mohammed Amin Khan oggi tristemente trasformata in albergo.

Il minareto Kalta Minor che secondo la leggenda avrebbe dovuto superare i 70 metri ed essere il più alto del mondo ma alla morte del suo committente rimase incompiuto all’altezza di 26 metri e la moschea di Juma o moschea del venerdì costruita nel X secolo ma pesantemente rimaneggiata sul finire del ‘700.

Il palazzo Tosh-Hovli, casa di pietra, il cui architetto fu decapitato per non essere riuscito a completare i lavori in due anni come promesso e il caravanserraglio e il bazar ancora oggi adibiti al commercio e la madrasa di Khuli Khan. Le nostre menti lentamente si abituano alle decorazioni, allo stile, ai colori e cominciamo ad assaporarne la bellezza e unicità.

Dopo una pausa pranzo per gustare la cucina locale, ci dirigiamo verso il Kuna Ark, la fortezza dei regnanti di Khiva con il suo harem e le prigioni Zindon, costruite all’inizio del ‘900, e la moschea estiva e sul finire della giornata, verso il tramonto, saliamo in cima al Bastione Ak Sheik Bobo per godere di una vista mozzafiato della città.

Il giorno successivo partiamo molto presto alla volta di Bukhara. Ci attende un lunghissimo viaggio, 450 Km in auto su un itinerario che attraversa il Kyzyl-Kum o deserto Rosso, seguendo il corso di uno dei due fiumi più importanti dell’Uzbekistan l’Amu-Darya.

Queste terre, appartenenti alla Repubblica autonoma del Karakalpakstan, si trovano al confine tra Uzbekistan e Kazakistan i cui confini si intravedono a tratti al di là del grande fiume. Scopriamo solo alla fine del nostro percorso che questa è definita dagli Uzbeki “l’università delle strade” e chi la percorre interamente si “laurea” in questa assai singolare disciplina. In effetti noi, da soli, non saremmo mai stati in grado di seguirne il percorso, evitando le buche e le parti accidentate, ma siamo contenti di essere giunti alla fine a Bukhara-i-Sharif, la sacra, la nobile.

Il quarto giorno è dedicato a Bukhara. Anche se meno presente nell’immaginario collettivo rispetto a Samarcanda è una delle città più antiche al mondo, con i suoi palazzi millenari e i monumenti nascosti da spesse mura.

La città esisteva già nel VI secolo a.C. e anche Alessandro Magno la raggiunse e conquistò. Era situata ad un crocevia fondamentale per l’epoca, trovandosi al centro tra le principali città afghane e persiane; di fede zoroastriana, quando venne invasa nell’VIII secolo fu pesantemente islamizzata.

Successivamente divenne la capitale del regno Samanide e staccatasi dall’afflato sunnita di Bagdad diede inizio al suo periodo di massimo splendore. E’ durante questo rinascimento islamico che a Bukhara si svilupparono le arti e le scienze, la città divenne la sede della più grande e più ricca biblioteca del mondo islamico e venne creato un complesso sistema di vasche e canali in pietra per l’approvvigionamento d’acqua che le consentì di crescere in numero di abitanti fino a toccare le 300.000 unità.

Dopo la conquista di Gengis Khan nel 1220, proprio qui proclamatosi “flagello di Dio”, la città languì fino all’ascesa al potere da parte di Tamerlano, quando rifiorì parzialmente senza mai tornare all’antico splendore.

Fu, infatti, solo sotto Abdullah Khan e la dinastia shaybanide che Bukhara diventò la capitale di quello che venne poi chiamato il khanato di Bukhara. Come altrove, il declino dei commerci lunga la via della seta, in seguito, fece lentamente declinare la città che si perse nell’oblio; secolarizzata sotto la dominazione russa, solo oggi sta lentamente recuperando la sua vocazione originaria.

La maggior parte dei punti di interessi di Bukhara si trova all’interno del shakhistan e passeggiare per le sue strade è veramente piacevole nonostante la pioggia che ci accompagna durante la mattina.

Nel pomeriggio torna il sereno e la luce finalmente esalta i colori di questa città.

La sera è molto piacevole prendere parte ad una cena folkloristica a base di plov all’interno di un’antica madrasa.

Il giorno successivo ci dirigiamo, attraverso la steppa, verso Shakhrisabz, la cittadina che diede i natali a Tamerlano nel 1336. Anticamente conosciuta come Kesh deve il suo nome attuale, che letteralmente vuol dire “città verde”, proprio al grande conquistatore. Egli volle, infatti, i molteplici e sfaccettati giardini in cui i fiori sbocciavano a centinaia e gli alberi mettevano le foglie nel corso delle lunghe primavere.

Nonostante sia molto antica, questa città non ha mai avuto una particolare rilevanza storica, tranne nel periodo di Tamerlano, che impiegò anni, energie e risorse per abbellirla poichè la considerava la propria città natale e il luogo in cui avrebbe voluto essere seppellito. Purtroppo le sue volontà non poterono essere esaudite.

Estremamente interessanti sono i resti dell’enorme Palazzo Ak-Saray o palazzo bianco, per la cui costruzione furono necessari più di 25 anni. Rimane ancora il più grande del suo genere e non è difficile immaginarne le dimensioni anche soltanto dagli attuali ciclopici resti, immaginare gli archi larghi 22 metri che sostenevano torri alte 40 metri e con un cortile interno largo 100 metri.

Oggi non rimane molto di più del bellissimo portale di ingresso, ben conservato, con le sue decorazioni smaltate dai colori oro, blu e verde e le sue scritte volutamente asimmetriche per esaltare la perfezione di Allah in confronto all’imperfezione delle opere dell’uomo.

Degni di nota sono anche la moschea di Koz Gumbaz completata da Ulug Beg nel 1435 e la sua madrasa, complesso interamente ristrutturato negli anni ’90.

Dopo pranzo riprendiamo il nostro viaggio in direzione Samarcanda, una delle città leggendarie e anche forse la ragione principale del nostro viaggio. Vi arriviamo nel tardo pomeriggio dopo aver percorso una tortuosa e nebbiosa strada di montagna con alcune piacevoli soste per assaggiare il rabarbaro fresco con un pizzico di sale e le caratteristiche palline di formaggio di capra fermentato.

Il giorno successivo è interamente dedicato alla visita di questa grandiosa città. “Tutto quello che ho sempre udito a proposito di questa città è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto avessi potuto immaginare”, così la descriveva Alessandro Magno e certamente rimane ancora oggi una delle città che più prepotentemente si pone all’immaginario collettivo come luogo simbolo della storia paragonabile solo a Roma e Babilonia.

La sua storia è millenaria, alcune fonti ne datano la fondazione tra il VII e il V secolo a.C. e da allora i secoli si sono avvicendati sul suo territorio, snodo fondamentale lungo la via della seta ma anche luogo simbolo durante il regno di Tamerlano che fece con Samarcanda quello che Lorenzo il Magnifico fece con Firenze, facendovi accorrere i migliori artigiani, rendendola un cantiere aperto con nuovi edifici costantemente in costruzione che tra loro gareggiavano per grandiosità e bellezza. Alla sua morte Ulug Beg ne continuò l’opera fino al 1500 quando il declino dei traffici lungo la via della seta ma anche alterne vicende politiche ne segnarono l’inesorabile declino.

Fu poi conquistata dagli zar intorno al 1800 e cominciò un periodo di modernizzazione forzata che proseguì sotto l’URSS, che spingendola verso il progresso industriale ne alimentò una nuova crescita, anche urbanistica, che in qualche modo ne ha snaturato la struttura.

La nostra visita comincia dal maestoso Registan, il vero cuore della città e uno dei più begli esempi del patrimonio architettonico islamico mondiale. Registan vuol dire “posto della sabbia”, a ricordare che nel periodo zarista era animata da un affollatissimo bazar, ha oggi un aspetto imponente e magnifico con il complesso degli edifici perfettamente restaurati che insistono sulla piazza.

La leggenda vuole che il Registan abbia solo tre madrase (la madrasa di Ulug Beg, la madrasa Shir Dor e la madrasa Tilliya Kari) e non quattro, come sarebbe stato normale per circondare interamente la piazza, per preciso volere di Ulug Beg, che da filoso matematico avrebbe sottolineato come il numero tre racchiuda la perfezione.

Sono numerose le bellezze della città il Mausoleo di Gur i Amir che sembra abbia ispirato addirittura il Taj Mahal, l’osservatorio astronomico, la moschea di Bibi Khanum il cui gigantesco leggio in pietra sembra essere connesso con la fertilità femminile.

Tra tutti il complesso di Sah i Zinda è certamente uno dei luoghi indimenticabili per noi occidentali e uno posti più suggestivi della città.

Si tratta di un vasto complesso funerario, un museo a cielo aperto a cui si accede da un magnifico portale del 1400 voluto da Ulug Beg, meta di pellegrinaggio, con un impressionante succedersi di mausolei ciascuno fatto costruire da qualche famiglia aristocratica della città.

Dopo pranzo è la volta di altri magnifici monumenti di cui questa città è ricca.

Tuttavia uno spettacolo veramente indimenticabile lo vivremo quando, calata ormai la sera, i palazzi vengono illuminati da un gioco di luci suggestivo.

La mattina dopo siamo nuovamente in macchina verso Tashkent, quando vi giungiamo sta piovendo e questo non aiuta. La nostra visita alla capitale comprende i luoghi simbolici dell’islam come la madrasa Kukeldash, la moschea Jami, il bazar Chorsu, ma ci dà, per la prima volta, la possibilità di entrare in contatto con aspetti finora ingiustamente trascurati.

Tashkent è anche un assaggio di modernità con la sua piazza dell’indipendenza, i suoi edifici post sovietici e sua la metropolitana che lasciano intravedere quello che questa giovane repubblica vuole essere nel futuro, ma che soprattutto ci riportano pian piano al tempo presente.

E’ giunto il tempo di salutare i nostri gentili ospiti, soprattutto la bravissima Nadie (Надие Черкезова), di ringraziare e tornare a casa.

3 pensieri su “Sulle tracce di Marco Polo

  • Marzo 12, 2017 alle 8:44 am
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    Si, ma:
    – dove stanno i videogiochi?
    – Marco Polo non è un gioco da tavolo?
    – Vecchioni l’avete incontrato?
    – ma la pizza che c’è in una delle foto era con l’origano che a me viene un po’ pesante?
    – perché non si parla della cacarella di Patatino, ma solo delle palline di formaggio di capra?
    – Nadia c’aveva la gonna leopardata come la signora in una foto?
    – il sindaco di Samarcanda glielo fa fa’ o stadio?

    Ecco in questo post mancano dei dettagli….

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    • Marzo 12, 2017 alle 9:13 am
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      Eh vabbè quanti interrogativi! Ci sarebbe da discuterne per ore soprattutto “doo stadio”, comunque magari rivivremo queste avventure su plancia, chissà..

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